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Il pittore Giotto e il poeta Dante Alighieri sono stati indiscutibilmente i principali protagonisti del XIV secolo, ognuno eccellendo nella propria arte. Giotto nacque intorno al 1267 e morì verso il 1336. Dante nacque nel 1265 e morì nel 1321. I due erano, insomma, non solo contemporanei ma coetanei. Che ognuno fosse a conoscenza della fama dell’altro, tanto da omaggiarlo, è fuor di dubbio e d’altro canto ne abbiamo esplicite testimonianze.
Dante celebra Giotto
Abbiamo un celebre passo della Divina Commedia (1304/7-1321) in cui Dante fa esplicito riferimento alle “novità” e al successo dell’arte giottesca. Nel Purgatorio (Pg XI 94-96) leggiamo, infatti: «Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura». Cimabue era convinto di essere il più bravo, il più meritevole nel campo della pittura, ma è stato superato da Giotto, che ne ha oscurato la fama.
Questo diceva Dante, riconoscendo quindi al pittore suo coetaneo un indiscusso primato sul più anziano caposcuola. E, nel farlo, egli a Giotto si paragona, giacché ritiene di avere a sua volta superato i propri maestri: «Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido» (vv. 97-99). Dante è convinto di rappresentare con Giotto una novità.
Non solo, egli, così fiero della propria dignità di letterato, riconosce Giotto come suo pari, e non perché questi fosse abile nel suo mestiere, come in definitiva era richiesto a quei tempi, ma perché con il suo ingegno, la sua inventiva, la sua capacità di innovazione aveva surclassato chi lo aveva preceduto, ossia Cimabue e anche Cavallini, allo stesso modo in cui Dante aveva fatto con i poeti del Dolce Stil Novo.
Giotto omaggia Dante
Giotto, dal canto suo, dipinse Dante un paio di volte. La prima nella Cappella Scrovegni a Padova, ed esattamente tra gli eletti del Giudizio Universale. Dietro al suo presunto autoritratto con la berretta gialla si trova un uomo coronato d’alloro che la critica identifica proprio con Dante, benché non gli somigli molto.
Il secondo omaggio di Giotto a Dante risale a dopo la morte del poeta: un suo ritratto, questa volta molto somigliante, in un affresco della tarda maturità, realizzato quando il grande letterato era già morto, nella Cappella del Podestà dentro al Bargello di Firenze.
La testimonianza di Vasari
Ma, secondo le fonti, i due si conoscevano personalmente. Giorgio Vasari (1511-1574), che però scrive a metà del XVI secolo, afferma esplicitamente che i due erano amici: «Il quale [Giotto] fra gl’altri ritrasse, come ancor oggi si vede, nella capella del palagio del podestà di Firenze, Dante Alighieri coetaneo et amico suo grandissimo».
E, ricordando di un viaggio di Giotto a Napoli, dal 1328 al 1333, seguito alla chiamata del re Roberto d’Angiò che gli aveva commissionato la decorazione (oggi perduta) del Monastero e della Chiesa di Santa Chiara, Vasari fa questa affermazione: «E le storie de l’Apocalisse che fece in una di dette capelle, furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono anco quelle tanto lodate d’Ascesi [Assisi], delle quali si è di sopra a bastanza favellato; e sebbene Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gli amici, ragionamento». Quindi, secondo Vasari, i due non erano solo amici ma discutevano insieme di arte, tanto che Dante poteva spingersi a dargli dei consigli.
Dell’affresco originario restano solo l’immagine di un crocifisso in alto a sinistra, probabilmente un ladrone, nella parte centrale angeli in preda alla disperazione e nelle vicinanze alcune donne piangenti, sicuramente prossime al corpo disteso di Gesù, oggi perduto.
La testimonianza di Benvenuto da Imola
Vasari, si diceva, visse duecento anni dopo Dante e Giotto. Potrebbe essere considerato una fonte poco affidabile. Tuttavia, esiste un’altra celebre fonte che confermerebbe le affermazioni vasariane. Nel commento tardo-trecentesco alla Divina Commedia elaborato da Benvenuto da Imola (1330-1388) si ricorda la permanenza a Padova di Dante, durante il suo esilio, e di una visita del poeta a Giotto, mentre questi stava ancora dipingendo la Cappella degli Scrovegni. Sappiamo che la Cappella fu inaugurata il 25 marzo del 1305, quindi la visita dovette compiersi entro quell’anno.
Benvenuto riporta un gustoso aneddoto: «Accadde una volta che mentre Giotto, ancora abbastanza giovane, dipingeva a Padova una cappella nel luogo dove un tempo c’era l’anfiteatro, o arena, giunse anche Dante da quelle parti e Giotto lo accolse con grandi onori e lo ospitò a casa sua. Qui Dante, vedendo che i suoi molti bambini erano davvero brutti e, per dirla in breve, somigliantissimi al padre, gli chiese: “Egregio maestro, mi domando stupito perché voi, che non avete uguali nell’arte del dipingere, facciate tanto belle le figure degli altri e così brutte, invece, le vostre”. Al che Giotto, ridendo, rispose prontamente: “Perché dipingo di giorno, ma plasmo di notte”.
Il dipinto raffigura il filosofo Pietro D’Abano in piedi che accompagna Dante Alighieri a visitare Giotto che sta affrescando la Cappella degli Scrovegni.
L’aneddoto, di cui non si può dimostrare la veridicità, dimostra non solo una conoscenza ma una certa confidenza fra i due: Dante, che il Boccaccio ricorda «ne’ costumi domestici e publici mirabilmente ordinato e composto, e in tutti più che alcuno altro cortese e civile», non si sarebbe mai spinto con un estraneo a un simile commento e d’altro canto Giotto, il cui carattere era notoriamente sanguigno, si sarebbe offeso se tale motteggiare non fosse venuto da un amico. Invece, la sua reazione è divertita e la risposta è piena di ironia. Al di là della battuta, la fonte trecentesca tende a confermare non solo che Dante a Padova frequentò Giotto ma che il rapporto fra i due era confidenziale.
Giotto e Dante a confronto
Dante si interessò di arte e non genericamente. Nella sua Divina Commedia, capolavoro assoluto della letteratura italiana, e in particolare nei canti X e XII del Purgatorio, egli descrisse alcuni bassorilievi e formulò un giudizio molto interessante: «non sembiava imagine che tace». Quelle opere erano come parlanti, «i vivi parean vivi», e questo a lui piaceva. Dante riconobbe il valore di un naturalismo sicuramente non fine a sé stesso ma necessario a rendere visibile ciò che prima era solo intellegibile. Dal canto suo, Giotto coniuga perfettamente la storicità della sua pittura con la naturalezza dei protagonisti.
Nei suoi dipinti, egli non narra solo la storia di Cristo, degli apostoli, della Chiesa e dei suoi santi; la sua è soprattutto una storia di uomini. Nella Basilica superiore di Assisi e nella Cappella degli Scrovegni, non vi è soggetto, anche minore, che non rechi un’impronta individuale, espressa da uno sguardo, un gesto, una piega della bocca, un’inclinazione del viso. Come tutti i capolavori di ogni tempo, il ciclo degli affreschi padovani rivela grandi valori e piccole emozioni, tratta di profonde verità e si sofferma su momenti di lirica intimità.
Scrivere e dipingere “in volgare”
Si può quindi affermare, con sicurezza, che Dante e Giotto giudicarono in modo simile la vita e il senso più profondo del proprio mestiere. Sia l’uno sia l’altro riconobbero, nella realtà, il contesto in cui poter cogliere il senso ultimo e più profondo delle cose. Dante, coltissimo letterato, ebbe l’audacia di scrivere la sua Divina Commedia in volgare anziché in latino, come si usava fare ai suoi tempi; e lo fece con l’intento di arrivare, attraverso i suoi scritti, al maggior numero di persone.
Non esitò a ricorrere a un lessico segnato da grande concretezza espressiva. I suoi personaggi, pur vivendo in una dimensione ultraterrena, parlano, discutono, si animano come persone comuni, dotate di grandi passioni. E d’altro canto egli stesso immagina di affrontare il suo viaggio nell’oltretomba cristiano in carne e ossa, non in un sogno. La Commedia racconta non di una fantasiosa evocazione ma di una concreta esperienza vissuta, durante la quale, e grazie alla quale, il poeta poté osservare e giudicare gli uomini e i fatti del suo tempo.
Non diversamente Giotto, anche quando trattò di argomenti religiosi o teologici, usò un linguaggio figurativo chiaro, immediato, perfettamente comprensibile. Le sue figure “paiono vive” come avrebbe detto Dante. Per entrambi, questa attenzione alla realtà fisica non fu un fine ma un mezzo, utile per riflettere su un significato trascendente. Guardare al cuore dell’uomo consentì loro di gettare uno sguardo nel cuore di Dio.
San Francesco nella pittura prima di Giotto
Il personaggio che idealmente unisce Giotto e Dante è Francesco di Assisi (1181- 1226), canonizzato già nel 1228, uno dei santi più importanti e venerati nel Medioevo, e quindi più rappresentati dall’arte medievale. La sua iconografia si affermò già nel XIII secolo. Nelle opere che lo ritraggono, Francesco porta il rustico e caratteristico abito di sacco, marrone o grigiastro, talvolta munito di cappuccio, legato in vita da una corda. Le maniche, lunghe e larghe, permettevano alle mani di incrociarsi al loro interno, per proteggerle dal freddo. Il santo è mostrato a piedi nudi, così come visse. In genere ha la barba, talvolta più rada talvolta più lunga; sul capo, mostra un’ampia e vistosa tonsura.
Le primissime pale d’altare che accolgono l’immagine di Francesco hanno un evidente intento agiografico e sono fortemente condizionate dai retaggi dell’arte bizantina. La bella pala d’altare con San Francesco e storie della sua vita, datata 1235 e firmata dal lucchese Bonaventura Berlinghieri (1210 ca.-1287 ca.), fu dipinta solo nove anni dopo la morte di Francesco: potrebbe dunque trattarsi della prima raffigurazione di questo santo. Francesco è raffigurato in piedi in una posa rigidamente frontale e austera, nella mano sinistra regge un libro, probabilmente la sua Regola, o forse il Vangelo, mentre con la destra benedice e mostra le stigmate. È affiancato, ai lati, da sei episodi della sua vita, soprattutto miracoli, tratti dalla biografia di Tommaso da Celano, redatta poco dopo la morte del santo.
Fu Cimabue il primo a creare per Francesco una iconografia nuova capace di umanizzarlo. Tradizione vuole che il santo non fosse di bell’aspetto, sicché Cimabue, ritraendolo in un affresco nella Basilica inferiore di Assisi accentuò certi particolari somatici, come la fronte bassa, il naso aquilino e le orecchie a sventola.
Giotto e Francesco
Fu tuttavia Giotto a rivoluzionare la rappresentazione di San Francesco. Nel suo ciclo di affreschi dedicato al santo nella Basilica superiore di Assisi, l’artista, per la prima volta, ispirandosi alla Legenda Maior scritta da san Bonaventura, l’unica biografia di Francesco che l’ordine francescano accettò come ufficiale, raccontò le vicende di Francesco rendendo la sua figura profondamente umana e concreta. Con il suo stile comunicativo ed efficace, Giotto fece agire Francesco in spazi e paesaggi riconoscibili, dotando di concretezza il suo corpo e quello degli altri personaggi, mostrando espressioni umanissime di gioia, stupore, indignazione, soffermandosi su dettagli solo apparentemente insignificanti, giacché ogni cosa, anche la più piccola, è segno di qualcos’altro che è ben più grande.
Certamente, Giotto, che ben conosceva la letteratura francescana, e che aveva letto il Cantico delle creature, composto da Francesco tra il 1224 e il 1226, mostrò di comprendere a fondo e di fare proprio il messaggio del santo: è nel creato, negli alberi, negli uccelli, negli uomini, e non solo in quelli importanti, che si riflette l’immagine stessa del Creatore. Ricordiamo inoltre che Francesco, componendo in volgare umbro il suo Cantico delle creature era stato, di fatto, il primo autore della letteratura italiana, precedendo in questo Dante. Il naturalismo di Giotto è insomma assai debitore della poetica francescana.
Dante e Francesco
Francesco è anche uno degli indiscussi protagonisti della Divina Commedia di Dante. È infatti nei canti XI e XII del Paradiso, ambientati nel quarto cielo (il cielo del Sole), dove sono presenti gli spiriti sapienti, che il poeta presenta i due “campioni” della cristianità, ossia San Francesco e San Domenico. Le loro figure eroiche vengono presentate a Dante, durante il suo viaggio in Paradiso, da San Tommaso d’Aquino e da San Bonaventura da Bagnoregio.
Tommaso racconta al poeta di come Francesco avesse rinunciato ai propri averi in nome della Povertà, che, vedova di Gesù, divenne sua sposa dopo aver atteso un nuovo compagno per undici secoli (vv. 64-66). Dante collegò, insomma, la figura di Francesco a quella di Cristo, così come aveva già fatto Giotto nell’episodio in cui il santo riceve le stimmate sul Monte della Verna.
Infatti, Giotto, precedendo con i suoi cicli di affreschi, ad Assisi e a Padova, la composizione della Divina Commedia, anticipò Dante in questa presentazione di Francesco come alter ego di Gesù, attraverso un’accurata scelta degli episodi, che non a caso si relazionano con quelli delle Storie del Nuovo Testamento già dipinte da Cavallini e Torriti nella parte alta della navata, e di cui le Storie di Francesco si propongono come una ideale prosecuzione, giacché Francesco imitò Cristo fino alla perfezione, «fino a portarlo impresso nella propria carne» (C.Frugoni).
San Francesco, sia nei cicli giotteschi sia nella Commedia dantesca, è insomma una figura Christi: egli replica quella del Messia, in base al disegno provvidenziale di Dio.
Nell’opera di Dante sembrano invece passare in secondo piano certi aspetti più didascalici della vita del santo, come la predica agli uccelli, e il suo amore profondo per la Natura, cui invece Giotto aveva dato molto più rilievo.
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