Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 20 aprile 2015


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Apr 20 2015 73 mins  
Commento a Atti 26, 1-23

Non fui disobbediente alla visione celeste

È l’ultimo grande discorso di Paolo. Per la terza volta è narrata l’esperienza di Damasco. Vedi anche At 9, 1-19 e At 22, 3-16.

L’apologia in cui l’accusato difende se stesso (vv. 1.2-24) diventa apologia della fede in Gesù e prova scritturistica del suo mistero, di cui Paolo è servitore e testimone.

Siamo al culmine dell’opera di Luca che riassume gli aspetti fondamentali della storia della salvezza. In essa Paolo ha un ruolo particolare. La profezia di Simeone sul bambino Gesù come “luce per illuminare le genti” (Lc 2,29-32) si compie nel ministero di Paolo (At 26,17s). La prospettiva di salvezza universale predetta dai profeti fa da grande inclusione a tutta l’opera lucana, che si apre con la profezia di Simeone e si conclude con questa testimonianza di Paolo.

L’ apologia di Paolo diventa un discorso missionario ai Giudei che mostra Gesù come colui che fu promesso da Mosè e dai profeti dei tempi antichi.

Nei due racconti precedenti del fatto di Damasco Paolo è presentato rispettivamente come“vaso eletto” (9,15) e “testimone” ( 22,15). Qui invece è “profeta”, portavoce di Dio. Infatti nei vv. 16-18 si identifica ai profeti (cf Ez 2, 1-6; Ger 1, 8; Is 35, 5; 42, 7; 61, 1).

Qui Paolo si rifà a loro e a Mosè per comprendere il grande mistero del Messia sofferente, primo dei risorti e luce di salvezza per tutti (26, 22.23). Siamo all’apice cristologico degli Atti.

Il Cristo che ha conquistato lui, persecutore di cristiani, grazie alla sua testimonianza deve liberare dalla tenebra il popolo di Israele e i pagani (vv. 13.18.23).

In questo terzo racconto dell’esperienza di Damasco il Signore stesso si fa vedere da Paolo e lo chiama alla sua missione universale. Pure lui, al pari degli apostoli - anche se dopo i quaranta giorni (At 1,3) e da ultimo - ha visto il Signore risorto in persona che l’ha direttamente chiamato ad essere suo servitore e testimone (v. 16).

Paolo, membro della “corrente più rigorosa della nostra religione” (v. 5), rappresenta visibilmente ai suoi ascoltatori la fedeltà alla promessa di Dio che si è adempiuta in Gesù, quella promessa verso la quale i suoi avversari sono diventati disobbedienti (v. 19).

Più che una difesa di Paolo, le sue parole sono una difesa della promessa di Dio che si è avverata in Gesù e in chi lo accoglie.

Gesù e Paolo - il testimoniato e il suo testimone - sono i personaggi principali dell’opera lucana. Ma i due, pur distinti, sono oramai uno nell’unità d’amore. Paolo dice: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

Paolo è l’apostolo-tipo attraverso del quale il Risorto porta a compimento la sua missione salvifica universale. Questo è il grande disegno di Dio sull’umanità, già annunciato dai profeti.

Paolo è sempre stato fedele e obbediente alla parola. Prima dell’incontro di Damasco era fedele da fariseo (vv.4-8) - tanto zelante da perseguitare i cristiani (vv.9-11). Dopo l’incontro con col Cristo (vv. 12-18) divenne fedele alla voce celeste che l’ha costituito suo servitore e testimone per portare a tutti la salvezza d’Israele (vv. 19-23).

Come si vede, lo zelo per Dio e la fedeltà a lui può portare a uccidere oppure a salvare l’uomo. Da qui la necessità del discernimento degli spiriti: “Voi non sapete di che spirito siete: il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini ma a salvarle” (Lc 9,55). Così dice Gesù agli zelanti Giacomo e Giovanni. Ogni spirito che uccide e perde l’uomo, è “diabolico”. Lo Spirito di Dio invece salva e dà vita. Il criterio di discernimento per riconoscere lo Spirito di Dio è “la carne” di Gesù, (cf. Gv 4,2), epifania dell’amore di Dio offerto ad ogni carne. Gesù è Figlio di Dio perché è Figlio dell’uomo che ama ogni uomo, giusto o peccatore, come figlio del Padre.

L’uomo è l’unica immagine di Dio. Ciò che si fa all’uomo, lo si fa a Dio. Nessuno lo dimentichi, di qualunque religione sia o non sia. Chi si divide e condanna un uomo, non importa se più o meno in nome di Dio, ha uno spirito “diabolico e satanico” (= divisore e accusatore).

L’incontro con il Vivente, che si identifica con ogni carne, ha fatto passare Paolo dall’amore della verità alla verità dell’amore.

L’amore della verità uccide l’uomo in nome di Dio – di quel dio che in realtà è diabolico e satanico. Questo vale per ogni uomo, cristiano, mussulmano o ateo. L’unico culto vero a Dio, per Mosè e i Profeti come per ogni persona degna di tale nome, è l’amore del prossimo. E per “prossimo” si intende anche chi è accecato e uccide l’altro in nome di interessi diabolici travestiti o meno di religiosità. Non è il diavolo la scimmia di Dio?

La verità dell’amore invece apre al rispetto di ogni uomo. Se l’amore della verità diventa sempre amore del potere, la verità dell’amore sprigiona in tutti il potere dell’amore.

Paolo, come Gesù, suo Signore, è il maestro della verità dell’amore (cf 1Cor 13,1ss).

DIVISIONE:

a. vv. 1-3 introduzione

b. vv. 4-8: Paolo zelante fariseo

c. vv. 9-18: incontro con Gesù e sua chiamata alla missione tra i pagani

d. vv. 19-23: “predica” ad Agrippa su Cristo primo tra i risorti, luce e vita per tutti