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Una delle principali testimonianze del mal di vivere del primo Novecento fu la pittura di Egon Schiele (1890-1918), esponente dell’Espressionismo austriaco sviluppatosi nel contesto della Secessione viennese. Schiele, infatti, fu allievo di Klimt, che ancora agli inizi del Novecento era in attività e considerato da tutti un grande maestro e un modello da imitare.
Egon fu artista sensibilissimo e tormentato. La sua dolorosa condizione esistenziale fu espressa prima di tutto dai molti autoritratti. Il pittore si mostra completamente nudo. Il suo corpo magro sembra malato; non si tratta di una malattia fisica: l’artista intende mostrare la malattia della propria anima.
Alberi e girasoli
Schiele amava osservare «il movimento corporeo delle montagne, dell’acqua, degli alberi e dei fiori. Dappertutto possiamo notare movimenti simili a quelli del corpo umano». «Interiormente, nel segreto del proprio essere e del proprio cuore, anche in piena estate si può vedere e sentire un albero autunnale. […] Tutto ciò che sta vivendo è già morto». Così scrisse, nell’agosto del 1912. Schiele, dunque, proiettò il proprio mal di vivere anche nei suoi splendidi paesaggi, segnati da alberi isolati e spogli e da fiori dalle evidenti qualità antropomorfe. La natura di Schiele ci pone in contatto diretto con la triste verità del vuoto dell’esistenza, esprime una visione sconfortata del mondo e della vita; è, dunque, puramente simbolica. I suoi alberi magri, i lunghi girasoli sfioriti ci parlano di tristezza e solitudine.
Ad esempio, in Albero d’autunno, attraverso la rappresentazione della pianta secca e avvizzita, Schiele racconta l’esperienza angosciosa della precarietà. Quest’albero ritorto è, prima di tutto, l’immagine scarna ed essenziale di sé stesso e a un tempo la tragica prefigurazione della morte che lo attende.
Altrettanto si può dire per la sua serie dei Girasoli, che richiama quella, ben più nota, di Van Gogh: con la differenza che il vitalismo dei fiori vangoghiani si è come spento, esaurito. I girasoli di Schiele sono riarsi, appassiti, rinsecchiti. Mentre, nel loro trionfo di giallo, i girasoli di Van Gogh rendevano omaggio alla vita ed esprimevano un anelito di speranza, quelli di Schiele testimoniano la presa d’atto della disillusione.
Il suo Girasole del 1909-10, alto e magro, è ancora una volta una sorta di autoritratto simbolico, perché secco, malato, incapace di reggere il peso della sua grande testa sullo stelo lungo e dritto, compresso nello spazio strettissimo della tela, prossimo alla morte. I girasoli di Schiele sono privi di forza e di vitalità, sono fiori inetti, tragicamente prigionieri del proprio isolamento.
Da Schiele a Montale
«Portami il girasole ch‘io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto giallino. Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture. / Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; /portami il girasole impazzito di luce». Così scriveva, nel 1923, il poeta italiano Eugenio Montale (1896-1981), che di Schiele fu quasi coetaneo, nella poesia intitolata Portami il girasole ch’io lo trapianti, contenuta nella raccolta Ossi di seppia, edita nel 1925.
C’è tutta la forza di una preghiera, in questi versi, e, nel contempo, la confessione della debolezza del poeta, la cui anima è presentata come un terreno bruciato dal salino. Il giallo del girasole (come, altrove, sempre nella poesia montaliana, quello dei limoni), è fonte di tenera consolazione, allevia il disincanto del poeta, per cui tutto, alla fine, altro non è che un’illusione. Montale ritiene che la poesia (come, per certi versi, l’arte) non sia in grado di portare ordine nel caos interiore dell’uomo, può solo certificarlo:
«Non domandarci la formula che mondo possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (Non chiederci la parola, 1923).
Se la parola poetica non sa rivelare l’essenza segreta della realtà, il poeta non è in grado di proporre messaggi positivi; egli può solo definire una condizione di non conoscenza.
Il mal di vivere
Insomma, la poesia di Montale, come la pittura di Schiele, nasce dalla dolorosa meditazione sulla propria condizione esistenziale: quella di chi vive senza vivere davvero. Al fondo della sua poetica, è una visione fortemente pessimistica della vita, che si esplicita nella sua celebre definizione del “male di vivere”.
«Spesso il male di vivere ho incontrato / era il rivo strozzato che gorgoglia / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato. / Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato».
Così Montale in Spesso il male di vivere ho incontrato, del 1924, la sua poesia più celebre pubblicata con Ossi di seppia. Mentre in Meriggiare pallido e assorto, del 1916 (modificata nel 1922), leggiamo «E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».
La muraglia, con i cocci di bottiglia in cima, chiude il poeta in una sorta di prigione esistenziale.
Il correlativo oggettivo
Montale, quasi fosse un pittore, ricerca nelle sue poesie la concreta determinazione di fatti e oggetti. Egli guarda agli elementi della realtà comune, di un quotidiano segnato dalla sofferenza, come il paesaggio aspro e assolato della sua Liguria: è il correlativo oggettivo montaliano, cioè quel rapporto che la parola stringe con gli oggetti che nomina.
Oggetti, immagini e voci della natura, come, appunto, il muro con i cocci di bottiglia, il rivo strozzato che gorgoglia (il faticoso fluire del ruscello impedito nel suo scorrere), l’incartocciarsi della foglia riarsa (l’accartocciarsi della foglia bruciata dalla calura), il cavallo stramazzato (stroncato dalla fatica), diventano per lui emblemi del senso di fatica e di dolore che segnano la condizione umana, di quel «male di vivere» che nasce dalla mancanza di certezze e dalla negazione di ogni illusione (e che richiama l’esclamazione del leopardiano pastore errante, nel Canto notturno: «a me la vita è male»).
Un mal di vivere che, secondo Montale, non può essere superato ma quanto meno attenuato dall’indifferenza, dal distacco dalla realtà che può lenire il dolore.
I paesaggi urbani
Questo tema della “divina indifferenza” può essere colto anche nella pittura di Schiele, soprattutto nelle sue splendide e malinconiche rappresentazioni di città vuote, dipinte con una scrittura preziosissima, di sublime e tormentata eleganza. L’assenza apparente di vita, in quelle case accostate e sovrapposte, spesso contraddetta da minuti dettagli, come per esempio i panni stesi, materializza uno stato d’animo dolente, comunica, a prima vista, un fatale senso di abbandono. Eppure, riconosciamo un rigoroso ordine di fondo, in queste vedute urbane, una solidità vagamente rassicurante nella forma così familiare dei tetti, dei campanili, delle finestre, mentre i colori, a volte delicati, altre volte caldi e intensi, alimentano una lieve brama di consolazione.
I limoni
Come, ancora una volta, in Montale, che nella sua poesia I limoni, del 1921-22, scrive: «Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni».
I limoni, come i girasoli, si caricano di valenze simboliche e consolatorie, grazie al loro giallo intenso e al profumo dolce e agrumato che, nei versi montaliani, si svelano improvvisi come una vera e propria epifania («Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni») che, allo stesso modo dei panni stesi di Schiele, fa piovere «in petto una dolcezza inquieta» tanto che «il gelo del cuore si sfa».
È uno di quei momenti rari dell’esistenza in cui una rivelazione sorprendente riesce a stupirci e a suggerirci il significato più profondo delle cose e della vita, persino farci intuire la presenza del divino nella natura. Il mal di vivere, secondo Montale, resta condizione ineluttabile; tuttavia, il poeta non smetterà mai di sperare in un varco, in una via di fuga, che consenta alla sua anima di rifiorire.
«Potere / simile questi rami / ieri scarniti e nudi ed oggi pieni / di fremiti e di linfe, / sentire / noi pur domani tra i profumi e i venti / un riaffluir di sogni, un urger folle / di voci verso un esito; e nel sole / che v’investe, riviere, / rifiorire!» (Riviere, 1920).
In fondo, a ben pensarci, anche un muro ricoperto di cocci di bottiglia non esclude a priori che dall’altra parte ci possa essere qualcosa. E che da quell’altra parte, prima o poi, in qualche modo, si possa anche andare.
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